La Fondazione Antonino Caponnetto, il magistrato che ha creato il superpool Antimafia di Palermo riunendo personalità come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Ayala e altri, sarà alla Gabella di via Roma venerdì 6 febbraio alle ore 21 per un incontro sul tema “Legalità e giustizia” all’interno della scuola di Etica e Politica curata da Telecitofono. A Reggio saranno ospiti la presidentessa Elisabetta Baldi Caponnetto, vedova del magistrato e Salvatore Calleri uno dei collaboratori del magistrato.
Antonino Caponnetto è stato il fondatore del pool antimafia di Palermo. Nel 1983, dopo l’ennesima strage di mafia in cui venne ucciso Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo, si candidò per prenderne il posto. Arrivato in terra siciliana, iniziò subito a lavorare per costituire quello che poi venne chiamato pool antimafia, che ha fatto scuola da allora innanzi: “…poche ore dopo il suo insediamento aveva convocato i futuri colleghi dell’ufficio istruzione dicendo loro senza particolari preamboli: “Ho intenzione di confermare metodi, struttura ed organizzazione del lavoro voluti dal giudice Chinnici. (…)”. Subito dopo aveva indicato le linee operative che sarebbero state praticate per anni: la socializzazione fra i giudici istruttori della propria esperienza professionale; la massima circolazione di notizie, informazioni, nuove acquisizioni processuali per evitare che singoli giudici fossero detentori di scomodo segreti; in altre parole la costituzione di un pool, una squadra di magistrati che avrebbero dovuto dedicarsi esclusivamente ad indagini antimafia essendo esonerata – proprio per decisione del capo di quell’ufficio – dalla routine giudiziaria”.
Del pool facevano parte Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe di Lello, Leonardo Guarnotta. L’arresto di Tommaso Buscetta, storico boss della mafia, ed il suo “pentimento” dettero origine al blitz di San Michele, considerata l’operazione antimafia più importante del secolo scorso. Interi clan mafiosi vennero trasferiti nei carceri di massima sicurezza.
Nello stesso anno Caponnetto istruisce il maxi processo: 474 imputati per reati di mafia. Nel 1987 arriva la prima sentenza:
“…Il 16 dicembre 1987 il presidente della Corte di Assise escea dalla camera di consiglio insieme al giudice a latere (Piero Grasso, attuale capo della Direzione Nazionale Antimafia, ndr.) e ai giurati popolari. Sono stati rinchiusi 45 giorni (…) Centinaia di anni di carcere inflitti per la prima volta contro centinaia di affiliati a Cosa Nostra. (…) Per tutti o quasi associazione a delinquere di tipo mafioso. Questo reato è stato introdotto nel codice penale dopo la strage di via Carini (dove vennero ucciso Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie e l’agente di scorta, ndr.), nel settembre del 1982, con l’approvazione della legge La Torre, cui poi verrà aggiunto il nome del ministro di Giustizia dell’epoca, Virginio Rognoni (attuale vice presidente del CSM, ndr.). (…) I mafiosi sono dichiarati delinquenti e condannati da una legge ed una sentenza dello Stato italiano (art.416 bis; fino al 1982 l’appartenenza a Cosa Nostra non era reato, ndr.). (…) L’ordinanza di rinvio a giudizio, firmata foglio per foglio da Antonino Caponnetto e scritta anche da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe di Lello, Leonardo Guarnotta, i magistrati del pool antimafia, cominciava così: “Questo è il processo all’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra, una pericolosissima associazione criminosa che, con la violenza e l’intimidazione, ha seminato e semina morte e terrore”.
Caponnetto lascia l’incarico nel 1988 e se ne torna nella sua Firenze, dove aveva lasciato la moglie e tre figli. Ma non è andato in pensione. Dopo le uccisioni di Falcone e Borsellino, ha iniziato, instancabile, un viaggio per le scuole e le piazze di tutta Italia per raccontare, soprattutto ai giovani e ai giovanissimi, chi fossero Falcone e Borsellino. Caponnetto ha girato centinaia di scuole, un infaticabile testimone di etica della politica e della vita civile, della giustizia e della legalita’.
Nel 1999 ha organizzato il primo vertice sulla legalità e la giustizia sociale a Firenze, chiamando a raccolta magistrati, giornalisti, avvocati, testimoni, associazioni e migliaia di cittadini, per discutere e “fare il punto” sulla questione giustizia in Italia. È morto il 6 dicembre del 2002.
I “vertici” sulla legalità continuano a svolgersi ogni anno, com’era sua volontà. E così il cammino della Fondazione a lui dedicata. Proprio ultimamente, Elisabetta Caponnetto, sua moglie, ha iniziato a raccontare ai ragazzi delle scuole chi era Nino, quali erano i suoi valori, quale è stata la sua vita.
Tanti meriti del pool e del maxi processo oggi attribuiti ad altri sono in realtà suoi. “Quel giorno venne data la notizia che un signore di nome Tommaso Buscetta, boss storico della mafia, si era “pentito” e che la sua “cantata” aveva provocato la cattura di quasi mezzo migliaio di trafficanti palermitani e siciliani dell’eroina, nonché feroci assassini e stragisti: il blitz di San Michele. I giornalisti presenti erano moltissimi. Fioccarono decine di domande. (…) Caponnetto, dunque, lo conoscemmo in occasione di quella conferenza stampa. E fu una rivelazione. Ci eravamo accorti che non aveva preso appunti. Rispose alla caterva di domande, nell’ordine inverso al quale erano state poste. Rispondeva ricordando, in tantissimi casi, anche il cognome di chi le aveva poste. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino manifestarono sempre verso la sua persona un rispetto reverenziale. Entrambi erano consapevoli che se il pool esisteva, questo lo si doveva innanzitutto alla mano salda di Antonino Caponnetto. (…) Quel magistrato, quell’avvocato o quel giornalista che attaccavano Falcone o Borsellino era come se attaccassero anche Nino Caponnetto. Del suo atteggiamento protettivo verso i “suoi” del pool, si è scritto tante volte: padre, tutore, scudo (…)”. Nino non ha raccontato la sua storia, ma quella dei suoi allievi.
Era un uomo dotato di grande carisma, accanto a lui ci si sentiva come accanto ad un gigante intellettuale ed umano che ignora la sua grandezza. Era umile, dolcissimo e dotato di una straordinaria autorevolezza. Ma, soprattutto, Nino era un uomo libero.
Nel suo libro “I miei giorni a Palermo”, classifica come “più emozionante” di tutta la sua esperienza palermitana questo episodio: “Quando entrai da solo nell’ufficio di Chinnici, mi sentii attanagliare da un’emozione incredibile. Non ho mai avuto il coraggio di toccare alcunché: come ho trovato la sua stanza, così l’ho lasciata (…)”.
Per maggiori informazioni sul programma Scuola di Etica e Politica.