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Bologna: il Consiglio comunale commemora Marco Biagi

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L’intervento del sindaco Sergio Cofferati e del professor Luigi Mariucci, docente di Diritto del Lavoro dell’Università Ca’ Foscari Venezia, alla commemorazione che si è tenuta oggi in Consiglio Comunale a Bologna, nel settimo anniversario dell’uccisione del professor Marco Biagi.


Intervento del sindaco Sergio Cofferati.
Ringrazio tutte le autorità, i Consiglieri comunali i nostri ospiti, per la loro presenza di questa mattina, presenza che riconferma un’attenzione importante in un momento delicato come è sempre quello del ricordo. Il ricordo di un figlio illustre della nostra comunità, Marco Biagi, ucciso barbaramente dalle Brigate Rosse perché svolgeva funzioni importanti per il suo Paese, perché si occupava di temi che hanno bisogno di essere
ricondotti a schemi normativi, a disposizioni di legge, per poter essere efficaci e per poter garantire l’adeguata protezione alle persone per le
quali sono stati pensati e poi definiti.
Il professor Marco Biagi si era occupato a lungo degli argomenti che riguardano il sistema dei diritti delle persone, a cominciare da quelle
che lavorano, e delle norme che definiscono il rapporto di lavoro. Era un giuslavorista che faceva parte di questa straordinaria scuola bolognese che – dai professori Federico Mancini, Giorgio Ghezzi, Umberto Romagnoli, Luigi Mariucci, Luigi Montuschi, Marcello Pedrazzoli, e i tanti che con loro hanno continuato nel corso di questi anni a lavorare – ha dato sempre
un rilevante contributo alla definizione del sistema legislativo nazionale e un altrettanto rilevante contributo alla definizione dei modelli tra parti sociali, quelle che rappresentano le imprese e il lavoro dipendente.
Un lavoro dunque di grande delicatezza, un lavoro per il quale era indispensabile equilibrio, capacità professionale e precisione nella
ricerca di soluzioni che di volta in volta vanno prefigurate e poi progressivamente descritte fino a diventare norma condivisa.
L’utilità di questo lavoro è nota a noi oggi ed era nota a tantissime persone anche nel tempo nel quale il professor Biagi ha collaborato con i governi del nostro Paese, con diversi ministri del Lavoro, diversi per appartenenza politica,
ma anche per approccio e valutazioni di merito ai problemi che erano chiamati ad affrontare e a gestire. Era una collaborazione importante, utilissima per chi in nome dei cittadini si occupava di gestire le sorti e
il destino del Paese. Il valore di quel lavoro era dunque esplicito, riconosciuto ed era noto anche ai criminali.
Mi è capitato più volte di parlare, anche in quest’aula, ricordando il professor Biagi, di questo filo che ha tenuto insieme tragicamente il
destino di professori come Roberto Ruffilli, Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e infine Marco Biagi. C’è un tratto comune nel loro destino e purtroppo anche nel come la loro vita è stata stroncata dalle Brigate Rosse. Sono persone che avevano cultura, riconoscimenti accademici, capacità di lettura dei processi in corso e dunque erano in grado di prevederne i possibili effetti e di ricondurli in ambiti legislativi utili per la loro comunità. Agivano in quello che è stato più volte chiamato un ruolo di cerniera tra le grandi forme della rappresentanza istituzionale,
politica ed economica, e la cittadinanza, le persone in carne e ossa che hanno bisogno delle loro istituzioni e delle regole che consentono a una
comunità di poter cogliere il meglio dai rapporti tra le forme di rappresentanza di interessi distinti. Tutto ciò aiuta la democrazia a consolidarsi perché per molti versi riporta il conflitto alla sua dimensione fisiologica, impedendo degenerazioni patologiche, dunque trae dalla dialettica il massimo vantaggio possibile e non la trasforma in elemento di sterile contrapposizione. Di questo i professori si sono occupati nel corso del tempo e non deve sorprendere se oggi i temi che
hanno fatto parte del lavoro e dell’approfondimento di queste persone sono
ancora qui e se intorno a quei temi ci si interroga in molti. Oggi le sedi istituzionali hanno bisogno di arrivare a un porto certo di definizione, di ruoli, di competenze. Il dibattito politico e culturale di questi mesi sta a confermare che quel porto ancora non è stato individuato o, quando è stato individuato, ancora non è stato raggiunto. Di questo si occupava con
grandissima capacità propositiva il professor Ruffilli. Ancora, la crisi economica ripropone i temi della protezione delle persone più deboli,
attraverso soluzioni contrattuali o legislative che permettano di non far crescere la povertà, ma di includere nel rispetto degli equilibri
complessivi dell’economia del Paese, temi su cui ha lavorato il professor Tarantelli. Si torna poi a discutere di rappresentanza, di
rappresentatività e di esercizio di diritti fondamentali come quello dello sciopero, che sono stati l’ambito nel quale Massimo D’Antona ha esercitato il suo impegno. E si parla del lavoro, delle articolazioni dei rapporti di lavoro e delle modalità con le quali gli stessi devono essere ricondotti a certezza, a garanzia e a rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte, ed è il grande tema del quale si è occupato Marco Biagi.
Credo che sia anche questa una ragione da riproporre oggi nella giornata nella quale ricordiamo la sua scomparsa. È un ricordo che la città propone in tante forme diverse. I suoi amici si ritroveranno per ripercorrere in
bicicletta il percorso che portò il professor Biagi per l’ultima volta dalla stazione alla sua abitazione; il segno di rispetto che a lui porta
il Consiglio comunale, con la deposizione della corona e con l’appuntamento di questi minuti; la presenza del Capo dello Stato a Modena
all’università che al professor Biagi è stata intitolata; e nel pomeriggio la consegna del premio del Resto del Carlino alla presenza di due ministri che in funzioni diverse hanno collaborato con lui e utilizzato l’intelligenza di Marco Biagi. Si tratta di forme diverse ma che hanno un unico obiettivo, quello di continuare a esercitare il ricordo non solo come rispetto per la persona che non c’è più e di affetto verso la sua famiglia, ma anche come occasione per riproporre il merito del lavoro di chi ha servito con efficacia e fedeltà il suo Paese. Sono forme che accomunano, e che hanno, credo, questo grande e importante aspetto alla
base della loro definizione. Accomunano perché quello al quale stiamo partecipando è un Consiglio comunale straordinario che vede in questa circostanza, come in altre, ma questa volta con più determinazione di altre, una comunità di intenti, lo stesso obiettivo praticato, non solo dichiarato, senza divisione tra schieramenti politici e vede con lo stesso
spirito la partecipazione delle autorità civili e militari della città.
Luigi Mariucci ci parlerà del suo amico e collega Marco Biagi. È importante che questo appuntamento mantenga nel corso del tempo questo carattere, il ricordo volto a riconoscere il lavoro e il valore del lavoro di chi non c’è più, non separato da una dimensione umana che è quella che ha accompagnato nel corso del tempo l’importantissima esperienza di quella che, non casualmente, ho definito una scuola di giuslavoristi, fondamentale per la nostra comunità e per l’intero Paese. Questa intenzione, questo modo di ricordare Marco Biagi, è importante che venga conservato e che dunque rappresenti quello che fin dall’inizio abbiamo voluto che fosse: un’occasione unitaria, lo stringerci insieme attraverso il ricordo intorno a una famiglia privata dell’affetto fondamentale, e dall’altra parte, il riconoscimento di un intera comunità verso una
persona che qui ha vissuto, qui ha lavorato, e che ha saputo, oltre che voluto, dare il suo contributo all’evoluzione dei rapporti e al tessuto
democratico dell’intero Paese. Questo è stato nel corso degli anni, io sono convinto che questo sarà anche nel tempo che verrà ed è importante che ciò accada e accadrà grazie alla vostra presenza che quest’anno si riconferma, come nel passato, e al lavoro che poi ciascuno di voi è chiamato a fare e che dal contributo delle persone che la follia del
terrorismo ha tolto alle loro comunità, ha trovato sempre in più di una circostanza anche in modo del tutto esplicito il riferimento necessario.
Dunque, grazie anche questa volta a tutti coloro che sono qui, grazie al Consiglio comunale di aver dimostrato come in passato tutta la sensibilità
necessaria ad affrontare occasioni come queste in una città che porta sul suo corpo ferite profonde, frutto della follia del terrorismo.
Dunque, abbiamo un compito in più rispetto ad altre comunità ed è importante che questo compito venga affrontato e risolto con lo spirito che anche questa mattina è presente in tutti noi.
Voglio ringraziare anche Luigi Mariucci per aver accettato la proposta di ricordare Marco Biagi. So che non è semplice, così com’è stato per altri
suoi colleghi. I ricordi scatenano emozioni e, quando le emozioni sono collegate agli affetti, parlare è sempre più difficile e un po’ più
doloroso.

Grazie per la vostra presenza.

Intervento del professor Luigi Mariucci.
Fosse qui Marco, gli direi: “vedi, uest’anno hanno chiesto a me di commemorarti, qui a Palazzo D’Accursio. Non me la sono sentita di dire di no. Lo faccio per te , per noi”.
Non farò, ti prometto, ricostruzioni analitiche della tua attività accademica, scientifica e di politica del diritto.
Intanto perché in questo luogo e altrove l’hanno fatto in tanti. Tra gli altri, Marcello Pedrazzoli, Luigi Montuschi, Umberto Romagnoli. Ma soprattutto perché sono sicuro che se facessi questo tu, da lassu’, mi faresti uno di quei tuoi particolari sorrisi, tra l’ironico e il beffardo.
Farò quindi un discorso sobrio, mescolando ricordi e qualche valutazione su ciò che ci appassiona, le politiche del lavoro, come se tu fossi qui.
Ricordi? Era la sera del 19 marzo 2002.
Io ero a una riunione alla Sirenella di S.Donato, convocata per discutere di “diritti del lavoro, diritti di libertà”.
Per quella serata avevo coniato una formula, che mi piace ancora: “nei diritti del lavoro è la radice più profonda dei diritti di libertà”.
L’oggetto di quell’incontro consisteva in una critica del “libro bianco del lavoro”, a cui tu avevi ampiamente collaborato. Ti avevo proposto di partecipare a quella discussione, proprio al fine di rimuovere dal confronto il fantasma della demonizzazione. Poi insieme convenimmo che era
meglio di no. E concordammo che tu avresti partecipato a un’altra iniziativa, promossa da Lavoro e Diritto, sul tema “dove va il diritto del
lavoro?”, e scegliemmo per quell’incontro, proprio per consentirti di partecipare, un giorno di lunedì, il 22 aprile 2002. A quell’incontro non sei potuto venire. Ti avevano ucciso quella stessa sera del 19 marzo.
L’ultima volta che ti avevo visto era stato a una riunione al Ministero del lavoro…
E poi in un viaggio tra Roma e Bologna in cui, a parte qualche battuta sul libro bianco e sulla disciplina dei licenziamenti, volesti parlare a lungo
della cosa che più ti stava a cuore. Di ciò che mi dicesti allora manterrò il riserbo. Seguirò la volontà di Marina. Posso solo aggiungere: quante
ipocrisie, Marco, in questa città, dietro le tue commemorazioni accademiche! Ma andiamo oltre.
Quella sera di fine gennaio 2002, arrivati alla stazione di Bologna mi stupii nel vedere che venivi a fare la fila con noi, alla fermata dei taxi. Davo per scontato che ti avessero restituito la scorta, data la tua
esposizione. Quanta ipocrisia, Marco, anche qui, dietro le tue commemorazioni politiche! Ma andiamo oltre.
Torniamo alle radici. A quando Federico Mancini che amava definirsi, non a caso, “capostipite” e non “maestro”, dette vita a quella cosa
meravigliosa, libera e quasi anarchica che fu all’inizio la “scuola di diritto del lavoro” di Bologna. Federico aveva il tocco della genialità.
Ricordo bene, e l’ho scritto anche da qualche parte, cosa Federico diceva di noi, di Nanni, Marcello, GianGuido, di te e di me. Giudizi icastici, medaglioni che erano pennellate, che poi in qualche modo riprese nelle dediche ai libri che volle regalarci dopo il concorso. A Federico piacevano l’indipendenza, l’autonomia, la libertà di pensiero. Trovo
perciò grottesco che qualcuno voglia imputarsi la sua eredità. Federico era un laico, un liberale autentico, “chimicamente puro”, avrebbe detto lui, un uomo della sinistra democratica.
19 marzo 2002-19 marzo 2009.
Fosse qui, con Marco ci saremmo messi a discutere, anche con qualche vivacità. Ma Marco non c’è più.
Qui è l’atroce, imperdonabile, stupida ferocia del terrorismo. Uccidono una persona. In questo modo pretendono di cancellarla, la fermano nel tempo: la consegnano, per sempre, a ciò che quella persona era in quel momento. Quella persona non c’è più: per la moglie, i figli, gli amici.
Non c’è più per ogni minuto, giorno, anno della vita che verrà.
L’uccisione di Marco, dopo quella di Massimo D’Antona, è stata per noi un colpo terribile. Io sentii allora il bisogno di interrogarmi sul perché
del “diritto del lavoro insanguinato”. Pensai che fosse necessario per restituire libertà e dignità al nostro dibattito. Vincendo una certa
ripugnanza esaminai analiticamente i documenti di rivendicazione delle BR per la uccisione di Massimo e Marco e arrivai alla seguente conclusione.
Il gruppo residuo delle BR (poi, almeno in parte, fortunatamente individuato) è debole sul piano organizzativo, perciò sceglie persone
inermi, obiettivi facili, però a forte carica simbolica: entrambi sono professori di diritto del lavoro, entrambi impegnati nella politica del
diritto, entrambi consulenti del governo in carica. Nella loro rivendicazione le BR dichiarano di voler colpire non “un uomo, una
struttura, un apparato statale” ma una “progettualità” quindi “il personale che costruisce l’equilibrio politico in grado di fare avanzare i programmi della borghesia imperialista”. Qui è il punto e qui si spiega
perché l’obiettivo privilegiato siano i giuslavoristi, chi si occupa delle regole del lavoro.
Il gruppo residuo delle BR è afflitto da una ossessione, da una paranoia lavoristica: al centro di quella che chiamano “lotta mortale tra proletariato e borghesia imperialistica” c’è una mitica “classe” radicata nel processo produttivo. Ma poiché quel mondo di cui vaneggiano non esiste più, anzi, nei termini in cui ne parlano non è mai esistito, cercano di
reincarnarlo. Uccidendo, appunto, chi si occupa non di eccitare ma di regolare il conflitto. Che altro deve fare un giuslavorista serio se non contribuire non a rimuovere, ma a regolare il conflitto, a fare del conflitto uno strumento utile alla dinamica democratica e allo sviluppo sociale? Solo così i giuslavoristi possono essere buoni e non cattivi maestri.
Per questo le BR hanno ucciso Massimo D’Antona e Marco Biagi. E continuerebbero ad ucciderne altri, se potessero. Per fortuna sono stati fermati, si spera una volta per tutte. Vanno duramente puniti, perché si sono macchiati di una colpa capitale: uccidere uomini in nome di una idea astratta, astorica, irreale.
Non esiste oggi, se mai è esistita in passato in remote e sbagliate costruzioni teoriche, una “classe” investita di funzioni salvifiche.
Esistono invece, in questo paese e nel mondo, milioni di donne e uomini che hanno problemi reali, spesso persino drammatici: trovare un lavoro, anzitutto, poi trovare se possibile nel lavoro senso, valore, dignità.
E questo è un problema difficile da risolvere, nelle condizioni date. In questo senso nel tema del lavoro è contenuta ancora una radicalità. Nel
senso che le questioni sociali più acute si rintracciano ancora attorno ai problemi del lavoro: per i giovani che cercano un lavoro stabile, che dia una prospettiva di vita, e fanno sempre più fatica a trovarlo, per i
lavoratori maturi espulsi dal processo produttivo che non trovano ricollocazione, per le donne che faticano a conciliare il lavoro con le
necessità di cura familiare, per le schiere sterminate dei lavoratori migranti. E’ una radicalità forte, questa del lavoro, ma al tempo stesso, per così dire, concreta. Essa invoca diritti elementari di dignità e libertà, non palingenesi, impossibili e comunque infauste. Richiede strumentazioni effettive, protezioni sociali, promozioni attive.
Del modo in cui tradurre in pratica questi obiettivi con Marco avremmo continuato a discutere a lungo. Per colpa dei terroristi si tratterà tuttavia di un dialogo solo interiore.
Dopo tutto quello che è successo in questi anni, di fronte alla crisi in atto, mi piace pensare che con Marco avremmo condiviso una valutazione di
fondo. Siamo di fronte a un passaggio sistemico, epocale. A una crisi diversa, più profonda, più strutturale di quelle che abbiamo conosciuto negli anni ’70 e ’80.
L’iperliberismo, la deregolazione non vanno da
nessuna parte. Occorre un nuovo sistema di regole. Sui valori di base, tuttavia, sulle strutture fondanti tutte le parti politiche e sociali dovrebbero convergere. C’è una quota del diritto del lavoro, composta da un intreccio di norme derivate dalla costituzione, dal codice civile e dallo statuto dei lavoratori che va considerata stabile, permanente. Sugli indirizzi operativi si può discutere e anche dividersi. Sul nocciolo no. Mi piace pensare che avremmo ragionato così.
Che dire ancora?
Solo una cosa.
Cinque anni fa con Giorgio Ghezzi e altri amici e colleghi promuovemmo un ricordo silenzioso di Marco nella sala a lui dedicata all’Istituto
Giuridico. Giorgio, in uno dei suoi ultimi interventi pubblici, disse allora: “Ecco a noi giuslavoristi bolognesi è sembrato opportuno, il 19
marzo, ricordare il secondo anniversario dell’assassinio di Marco Biagi raccogliendoci in silenzio, pronunciando taluno di noi solo qualche parola e rifuggendo così dalle consuete liturgie. Non c’è nulla da guadagnare, in termini di notorietà accademica. C’è solo da pensare sul perché, soprattutto in relazione a Marco Biagi, ma anche a Massimo D’Antona,
Walter Tobagi, Ezio Tarantelli e molti altri ancora i fantasmi spingono le onde del mare a riva anche quando il vento è cessato. Un arricchimento tutto spirituale e interno, assieme ad un ricordo che non si è spento e
non si spegnerà”.
Proprio così: “un arricchimento tutto spirituale e interno”.
Meglio di così, di come l’ha detto Giorgio, non si può dirlo.
Ciao Marco. Riposa in pace, se puoi.