Stasera – giovedì 19 novembre – alle ore 21 alla Gabella di via Roma arriva uno dei venti “pretacci” descritti nell’ultimo libro di Candido Cannavò, il giornalista scomparso che ha voluto dedicare l’ultima produzione della sua vita ai cosiddetti “preti di periferia”. Appuntamento con la Scuola di Etica e Politica “Giacomo Ulivi” di Gabella per un incontro organizzato in collaborazione con Yoga al centro. Un appuntamento sul tema “Educare alla condivisione”, dove si potrà conoscere il cappellano del carcere di Opera, un prete “in prima linea” con gli ultimi, con un bagaglio di esperienze umane di particolare rilievo.
Una chiesina del Cinquecento, le risaie, qualche capannone industriale e lì, tra i campi, la cubica struttura di cemento nella quale soggiornano alcuni dei più noti malavitosi italiani: questo è Opera, periferia sud di Milano, dove sorge il carcere di massima sicurezza. Qui «lavora» don Marcellino Brivio, un cappellano sui generis: di solito i suoi «colleghi» risiedono altrove e, come pendolari, raggiungono il carcere; don Marcellino, invece, è parroco di Opera e al carcere arriva a piedi; dalla casa parrocchiale segue una roggia che costeggia la strada e che porta dritto davanti alle sbarre per il primo controllo.
«Il carcere – prosegue il sacerdote – è ancora troppo spesso il luogo dove la società si vendica: hai fatto male, ti faccio male. Eppure in carcere ti lasci interrogare e ridisegnare anche nel tuo profilo di credente dal confronto con la realtà autentica e non con l’ideale. Bisogna rendersi conto che i nostri poveri sono loro, i carcerati: sono i più emarginati, i più dimenticati. Con i poveri diciamo “liberaci dal male”, ma è un’invocazione che ci riguarda tutti, è una richiesta che rivolgiamo al Signore: “Il male c’è e come è evidente in carcere! -, Tu portaci via, tienici con Te”. La Parola in carcere risuona in modo sorprendente. Le catechesi che si vivono con i carcerati sono straordinarie e poi devo dire che in quelle sezioni si tratta di circa cinquanta persone -, dove tre o quattro partecipano liberamente e consapevolmente alle catechesi, si vedono i frutti. C’è come la percezione di un continuo lavoro interiore che si rispecchia in tutta la sezione, in modo visibile, perché la Parola cambia da dentro le persone, in modo efficace».
«In carcere ci stanno le persone cattive», dice la voce pubblica. È vero anche dal punto di vista etimologico, ma con qualche sorpresa: infatti «cattiveria» è cifra strettamente legata a «cattività», intesa come l’essere prigioniero, tramite la provenienza comune dal latino capere, catturare. Il cattivo è in qualche modo catturato, prima che dalle guardie, dal proprio stesso agire che lo imprigiona. Il contrario di «cattivo», dunque, non è «buono», quanto piuttosto «libero». E mai si è liberi una volta per tutte: si impara insieme a essere liberi e ci vuole una vita, indipendentemente dal fatto di trovarsi in strada o dietro le sbarre di un carcere.