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Enrico Bellavia: “Tentato suicidio di Provenzano un segnale ai suoi e allo Stato”

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“Il tentativo di suicidio inscenato una settimana fa nel carcere di Parma dal superboss di Cosa nostra Bernardo Provenzano sta a significare che qualcosa si sta muovendo, è una sorta di messaggio rivolto tanto all’esterno, quanto all’interno dell’organizzazione: badate che sono pronto a parlare”. E’ quanto affermato questa mattina a Reggio Emilia dal giornalista Enrico Bellavia – profondo conoscitore di mentalità, riti e meccanismo mafiosi anche attraverso il libro-intervista al boss di Altofonte Francesco Di Carlo – durante il dibattito “Il comportamento mafioso tra tradizione e cambiamento” che ha caratterizzato la terza giornata di Noicontrolemafie 2012. Intervendo alla Festa della legalità promossa dal 15 al 19 maggio da Provincia di Reggio Emilia e Consorzio Oscar Romero con la direzione scientifica di Antonio Nicaso, Bellavia ha aggiunto che “il gesto di Provenzano e il ricovero in ospedale per crisi cardiaca di Pippo Calò, verificatisi a distanza di poche ore l’uno dall’altro, lasciano intuire che l’ala moderata di Cosa nostra potrebbe essere disponibile ad aprire una trattativa”.

In precedenza anche lo psichiatra Corrado De Rosa, riferendosi al tentativo di suicidio di Provenzano, aveva parlato di gesto: “più che altro dimostrativo perché nessuna perizia sul boss ha mai evidenziato un disagio così forte nè elementi clinici deponenti per un rischio suicidario”. E del fatto che: “Certamente in modo inconsapevole, ma il boss per compiere quel gesto ha scelto una data fortemente simbolica: il 9 maggio, giornata del ricordo delle vittime del terrorismo, nonché anniversario dell’omicidio di Peppino Impastato”. “Con la salute, i boss hanno sempre ‘lavorato’molto per mandare messaggi allo Stato e ottenere benefici – ha aggiunto De Rosa – fin dagli anni Ottanta, quando Raffaele Cutolo, trattando con i servizi segreti il suo interessamento per agevolare la liberazione dell’assessore regionale campano Ciro Cirillo rapito dalle Br, chiese in cambio soldi e appalti, ma anche perizie compiacenti”.

Anche la cronaca – con il clamoroso gesto compiuto una settimana fa a Parma da Proveznao – ha dunque fatto il suo ingresso a Noicontrolemafie, complice il dibattito sul comportamento mafioso tra tradizione e cambiamento che ha appassionato per oltre un paio d’ore anche i tantissimi studenti che hanno gremito l’aula magna dell’Università. Merito del “cast” davvero d’eccezione che Antonio Nicaso ha richiamato a Reggio e che, guidato con ritmo incalzante dal giornalista Arcangelo Badolati, ha affrontato anche aspetti inediti (ma non meno interessanti) del fenomeno mafioso. A partire appunto dal rapporto dei boss con la salute e la malattia spesso usate, o meglio strumentalizzate (tema affrontato da Corrado De Rosa), ma anche con la psicoterapia (Girolamo Lo Verso), per continuare con quello che succede nella mente di un giovane dapprima quando viene indirizzato alla violenza e al ‘credo mafioso’ (Adolfo Ceretti) poi – crescendo – nella mente di questi uomini che arrivano a sentirsi diversi in quanto “speciali” (Enrico Bellavia). Per comprendere infine, attraverso lo storico di criminalità organizzata Enzo Ciconte, come sono cambiati i mafiosi.

Il convegno si è aperto con i saluti del vicepresidente Pierluigi Saccardi, che ha portato il “ringraziamento non formale della Provincia per un festa che dimostra che un’Italia buona che non vuole gettare la spugna c’è ancora”. Dopo aver ricordato il lavoro di Palazzo Allende sull’equometro – “perché è legalità anche usare bene le risorse pubbliche destinandole a chi ne ha davvero bisogno”- Saccardi ha insistito sulla necessità “di riconoscere che esistono diritti e doveri” e su come “anche piccoli gesti quotidiani, attraverso il nostro impegno personale, possano produrre quel necessario cambiamento della nostra società”. “Oggi il livello di raffinatezza con cui la criminalità organizzata si è infiltra anche nell’economia e nella finanza richiede una risposta altrettanto raffinata da parte dello Stato che ancora purtroppo non c’è”, ha concluso Saccardi, invitando a tenere alta la guardia “soprattutto in queste situazioni di crisi e in una provincia ricca come la nostra”.

Presupposto iniziale del dibattito, come ha sottolineato Arcangelo Badolati, il fatto che “il mafioso con coppola storta e fucile a doppia canna in spalla non esiste più: oggi la mafia è più strisciante e pericolosa, perché si è infiltrata nelle professioni, i figli dei mafiosi hanno frequentato università importanti, ed è più difficile da riconoscere e, quindi, è più elevato il rischio di contaminazione”.

“Né aiutano serial come ‘I Soprano’ o film come ‘Terapia e pallottole’: dimenticateli, sono tutte fesserie – ha detto Girolamo Lo Verso, professore di psicoterapia nelle Università di Palermo e Enna – Il mafioso doc non va in psicoterapia, perché è una non-persona che considera l’altro che uccide una non-persona. Il punto allora è capire come si fa a diventare una non-persona, a far crescere qualcuno e farlo diventare una non-persona. Lo si fa abituandolo fin da piccolo a non avere una propria identità personale, ma a far coincidere il suo ‘io’ esclusivamente con Cosa nostra, con la ‘famiglia’. Così diventano specie di robot, veri e propri terminator che uccidono senza pensarci, vanno a letto e non sognano mai un omicidio. Sono capaci di uccidere 100 persone strangolandone 50 nella più assoluta indifferenza, anche emotiva. Non conoscono il piacere, non amano il cibo e il sesso. Al mafioso interessa solo il potere, perché con il potere si sente Dio, può decidere della vita degli altri uomini. E’ onnipotenza paranoica ed è inquietante pensare che aree politiche abbiano ritenuto che si potesse convivere con gente così…”.

Nemmeno le donne sfuggono a questi meccanismi: “Il mondo femminile di Cosa nostra non è schiacciato dal potere maschile, anche le donne hanno un enorme riconoscimento, godono del potere di essere la ‘moglie di’”, ha aggiunto Lo Verso che ha poi paragonato i mafiosi agli ufficiali nazisti: “Burocrati del male che non vengono arruolati come con la camorra, ma nascono in Sicilia o Calabria in famiglie mafiose, vengono cresciuti respirando mafia e vengono osservati fin da piccoli. Un bambino non deve sgarrare, ovvero non deve mostrare paura o avere cattive frequentazioni, come i comunisti, gli omosessuali e ovviamente gli sbirri. Poi viene addestrato: viene costretto a colpire a bastonate un altro bambino, ad ammazzare un cane e così via fino all’omicidio, uno dei massimi requisiti per fare carriera”.

Fondamentale, allora, comprendere le regole del mondo criminale e i rapporti nell’esercitare la violenza, tema sviluppato da Adolfo Ceretti, criminologo dell’Università di Milano-Bicocca che da anni – invece di andare nei salotti televisivi a osservare plastici di villette e parlare di persone mai incontrate di persona – studia i comportamenti violenti. “Per capire cosa si dicono, con chi dialogano, come parlano nel momento in cui commettono gesti violenti, anche delitti efferati. E spiegare il concetto di violentizzazione, ovvero di socializzazione violenta, che è quella che contraddistingue i mafiosi, chiamati ad affrontano passaggi nella loro vita che inevitabilmente li portano a essere violenti perché hanno modelli e regole violente”. Un percorso che avviene, metaforicamente, per stanze, passando da una all’altra a partire dalla prima che si schiude davanti a loro verso i 13, 14 anni: la stanza della brutalizzazione. “Si inizia così, subendo da parte di un adulto, magari il padre o una persona del quartiere, un trattamento rozzo e crudele che produce un impatto traumatico. Una sottomissione violenta che produce umiliazione, una sentimento difficile da elaborare – ha spiegato – Chi è stato brutalizzato, viene portato verso un comportamento belligerante. Cerca un perché a certe esperienze così drammatiche, e la conclusione è una sola: in questo mondo alcune volte è necessario ricorrere alla violenza. Da qui, inizia un’escalation che produce i terminator citati da Lo Verso”.

Eppure, queste ‘perfette macchine da guerra’, a volte vanno in depressione, tentano il suicidio come nel caso di Provenzano, si appigliano a perizie e visite mediche per evitare il carcere o i processi, o sfuggire al duro regime del 41-bis. “Ma in realtà, quasi sempre,sono malati immaginari”, ha assicurato lo psichiatra Corrado De Rosa, studioso del rapporto tra mafia e salute. Invitandolo a riflettere sulla strana catena di episodi registratisi in questi ultimi giorni: “Il suicidio tentato, o meglio inscenato, da Provenzano, il cui figlio prima era andato in tv da Santoro invocando buone cure per il papà; il boss Gaetano Fidanzati che ottiene di essere trasferito dal carcere di Parma in un centro di riabilitazione neuro-motoria a Bologna; Pippo Calò che viene operato ad ancona e non va in udienza”, ha elencato De Rosa. “Prima ancora, a gennaio, era stata richiesta una perizia psichiatrica per Totò Riina sulla sua capacità di stare in giudizio perché colpito da demenza senile. Ma diagnosticare una demenza, una malattia cronica che non può migliorare, significherebbe mettere il bavaglio a Riina, negare la possibilità di confronto con i giudici”, ha avvertito lo psichiatra, invitando a prestarte grande attenzione perché “i boss con la salute i boss hanno molto lavorato per mandare messaggi allo Stato e ottenere benefici e sono sospetti tutti questi casi di depressione maggiore tra i mafiosi o di anoressia tra i camorristi, che spesso smettono di mangiare, a volte ottengono di lasciare il carcere e poi fuggono”.

Dubbi sul tentativo di suicidio di Provenzano anche da parte del giornalista della Repubblica di Palermo, Enrico Bellavia, con un intervento legato non solo alla cronaca, ma anche alla psicologia, grazie ai lunghi colloqui avuti con il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, poi sfociati nel libro “Un uomo d’onore”. “Ho cercato di comprendere qual era il suo mondo di valori e, dunque, il processo mentale che porta un mafioso a considerarsi un essere superiore, onnipotente. E ho capito che il mafioso non si rende conto di uccidere, per lui esiste solo la conseguenza giudiziaria, il pagare per i propri comportamenti. “Se uno deve morire vuol dire che non merita di campare, ma se lui non merita di campare perché devo pagare io?”, il loro ragionamento. Uccidendo non commettono un crimine, ma compiono un dovere, una necessità stabilita da chi è sopra di loro. Un po’ come l’autodifesa dei gerarchi a Norimberga. ‘Quello se l’è cercata, ha tradito le regole, si è messo di traverso e minaccia di ostacolare la nostra attività. Io non sto uccidendo una persona, ma una non-persona, perché mai devo farmi anche solo un anno di galera?’, pensano. E anche chi poi collabora con la giustizia, lo fa perché comunque resta fedele a Cosa nostra, ‘sono gli altri che l’hanno tradita e l’hanno fatta diventare altro’. E’ una sorta di cosca-Stato, che combatte con le parole e non più con le pallottole.”.

A conclusione della mattinata, la ‘lezione’ dello storico Enzo Ciconte – per il quale “c’è un filo rosso che lega mafia, ‘ndrangheta e camorra, l’unica differenza sta nel livello del loro adattamento al contesto sociale” – e le sue riflessioni su quanto e come sono cambiati i mafiosi nel corso degli anni. “Anche, se non soprattutto, attraverso i rapporti con la massoneria – ha detto – Chi entrato nelle logge è cambiato, è stato costretto a confrontarsi con persone di un certo livello, non più con rozzi contadini. Col tempo, e con gli affari sporchi, si sono rafforzati anche dal punto di vista economico, e sono arrivati in grande silenzio al Nord, inizialmente attraverso il mercato della droga e generalmente senza violenze, a parte i fatti di Reggio Emilia di fine anni Novanta, perché i grandi affari si fanno con riservatezza”.

“Il risultato è che oggi la mafia è un problema soprattutto del Nord. Vogliono fare soldi e poter comandare. Perché il mafioso non solo e soltanto uomo violento che usa in modo barbarico il proprio potere. La violenza è un mezzo: ma il vero potere è farti capire che ti posso ammazzare quando voglio senza doverne rendere conto a nessuno, nonché la mediazione che è capacità di comando”, ha concluso Ciconte mettendo in guardia da quelli che definisce “gli uomini-cerniera”: “Una folla di avvocati, banchieri, notai, commercialisti, qualche politico che stanno attorno al nocciolo duro: oggi la mafia governa soprattutto attraverso di loro, senza ammazzare….”.